Scaramuccia
Da Yamada Mumon a Engaku Taino Una rivoluzione meditata
Massimo Shidō Squilloni *
Massimo Shidō Squilloni (Firenze, 1955) è un monaco Zen, discepolo del maestro Engaku Taino. È il direttore spirituale del centro Zenshinkai di Pisa (www.massimoshido.it).
Così Yamada Mumon in un discorso tenuto al Tassajara Zen Mountain Center nella primavera del 1976:1
(…) Quando il buddhismo di matrice indiana fu introdotto in Cina subì una forte trasformazione; lo stesso accadrà nei riguardi dello Zen giapponese quando si radicherà negli Stati Uniti. Così, io mi aspetto da voi parole che lo stesso Buddha Shakyamuni, come anche i Patriarchi cinesi e giapponesi, non hanno mai pronunciato. Mi aspetto da voi parole originali. Ma dobbiamo stare molto attenti a questo punto. Questa nuova parola Zen dovrà essere manifestata da una creatura la cui mente è la stessa del Buddha Shakyamuni. Perché questo accada, è necessario che lo zazen venga approfonditamente praticato nella sua forma tradizionale, cinese e giapponese. Facendo così, una Via americana potrà essere realizzata. Altrimenti, non si potrà parlare di uno Zen originale ma solo di una copia. Probabilmente lo Zen in Giappone scomparirà con la morte di noi, ormai vecchi monaci. Ed è per questo che io vi invito a dar forma al vostro Zen. Vi sono molto grato per questo.
Engaku Taino, discepolo di Yamada Mumon nel monastero di Shofukuji di Kobe, ha raccolto l’invito del suo maestro; ha radicato in terra d’Europa lo Zen della tradizione e lo ha poi sottoposto a una profonda, meditata rivoluzione dalla quale sono fiorite “nuove parole”.
Questo processo di rivoluzione può essere distinto in due fasi – “le nuove prassi” e “le nuove parole” – le quali si sono succedute nell’arco di un quarantennio. Il filo aureo che le lega, e che costituisce un asse dal quale Taino non si è mai spostato, sta nell’assoluta centralità sia della meditazione, praticata nelle due forme principali, quella seduta a gambe incrociate (lo zazen) e quella in movimento (il kinhin), sia del koan. La pratica meditativa concepita in India, perfezionata prima in Cina e poi in Giappone, continua ad essere per lui, come lo è stato per i Patriarchi che si sono succeduti per due millenni e più, lo strumento che permette al praticante di scavare nel suo mondo interno, di vedere con gli occhi della mente il proprio sé biforcato – ovvero il sé scisso nel “sé come soggetto e nel sé come oggetto” – e, infine, di trascenderlo, (ri)scoprendone l’originaria unità. Quest’unità originaria è la Mente di Shakyamuni a cui accenna Yamada Mumon, la “Sola Unica Mente” che è l’intero universo.
Accennerò ora brevemente a ognuna delle due fasi con le quali Engaku Taino ha attuato la sua rivoluzione dello Zen.
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Quella delle “nuove prassi” – (1975/2005) – è una fase molto lunga, articolata nell’arco di un trentennio, durante la quale si interviene progressivamente sulla forma rituale, organizzativa e logistica della pratica. Si opera sulla forma, ma che è anche sostanza, avviando una mutazione in radice del messaggio Zen e preparando il terreno per il salto qualitativo che verrà. I primi, pionieristici anni dopo la fondazione del monastero sono caratterizzati da un ristrettissimo numero di praticanti, per lo più giovani maschi, i quali, non avendo ancora responsabilità familiari/lavorative, possono permettersi di vivere un periodo della propria vita all’interno di un monastero, come i monaci del passato. Man mano che gli anni passano, gli abitatori dello zendo aumentano di numero e variano per composizione, estrazione sociale e culturale. Si avviano alla meditazione creature che, per ragioni anagrafiche, economiche, lavorative, familiari, possono praticare in forma comunitaria poco più di una notte al mese, e non solo perché raggiungere il Centro Italia, dove si trova il monastero, costa e costa sempre di più. La presenza femminile cresce in modo significativo e deve trovare un pieno coinvolgimento in tutti i ruoli di responsabilità. Taino analizza a lungo i “nuovi” zendo di fronte ai quali si trova a insegnare e prende consapevolezza che le prassi dei monasteri Zen giapponesi, da lui ben conosciute e inizialmente applicate a Zenshinji, essendo state “costruite” pensando a monaci residenti non sono più giuste per le nuove realtà emergenti: nuovi mondi, nuove sensibilità richiedono nuove forme, nuove prassi. Da qui i progressivi cambiamenti introdotti nel come fare Zen: assoluta parità uomo-donna nella gestione del monastero e nell’assunzione dei diversi incarichi, durata molto più ridotta, ma più intensa e concentrata, del ritiro di meditazione (sesshin), eliminazione dell’obbligo di indossare abiti formali (si preferisce, per capirsi, un prato di fiori selvatici a una serra di rose), ammissione di posture di meditazione diverse da quelle classiche del loto e del mezzo loto, durata dei periodi di meditazione seduta sostenibile da occidentali di tutte le età, semplificazione massima dei riti e dei sutra, costruzione di un rapporto maestro-discepolo lontano da ogni enfatizzazione magica della guida spirituale. Pian piano, la pratica al monastero assume una struttura sempre più essenziale: zazen, studio del koan e poco altro. Il ritiro spirituale mensile ha la durata di una notte, nella quale il discepolo ha più incontri riservati (sanzen) con il maestro per lo studio del koan. L’indicazione di fondo è di non rimanere in nessun modo “attaccati” al luogo fisico e alla routine mensile, di sciogliere ogni dipendenza dalla figura del maestro, di comprendere che la breve ma intensa sesshin che si vive a Zenshinji deve lasciare il posto, senza soluzione di continuità, alla grande sesshin che è nascosta in ogni respiro e alla quale il praticante deve partecipare in ogni istante della propria vita.
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“Le nuove parole” (2005/2010) – Parallelamente all’intervento sulle prassi Taino avvia una profonda riflessione sul senso della pratica dello Zen Rinzai nel mondo occidentale, chiedendosi se l’insieme di insegnamenti che viene dallo studio dei koan della tradizione sia adeguato a esprimere la posizione Zen riguardo ai nuovi dilemmi, alle nuove macro-sofferenze, alle contraddizioni della vita quotidiana del terzo millennio. Si chiede anche se la mutazione dei destinatari dell’insegnamento – non più monaci chiusi in un monastero come in passato, ma praticanti che sono immersi nel mondo per la maggior parte del loro tempo – richieda o meno un’espansione del dominio tematico dei koan pervenuti dalla tradizione. La risposta è la creazione di 116 nuovi koan che hanno formato le raccolte Bukkosan roku (20 koan) e Zenshin roku (96 koan).2 I nuovi koan non si caratterizzano solo per ambientazione e linguaggio moderni, ma anche per il fatto di esprimere la posizione Zen sui grandi temi del nostro vivere oggi (dal fine vita alle nuove tecnologie, dal se e come, in un mondo globalizzato, aiutare gli altri, alle problematiche familiari e intergenerazionali, e così via).
Seguendo l’indicazione di Yamada Mumon, Engaku Taino ha realizzato una Via occidentale alla cui radice sta un’intuizione fondamentale: “Il mondo, che è grande e lo sarà sempre, è perfetto così com’è” e dunque “Fare ogni sforzo per migliorare il mondo”.
Credo che la sua testimonianza Zen possa essere ben espressa dalla poesia che ha scritto nel 2001 (l’anno del serpente, secondo il calendario cinese):
Cosa rimane Del serpente Che ha mangiato se stesso
1 (*) Massimo Shidō Squilloni (Firenze, 1955) è un monaco Zen, discepolo del maestro Engaku Taino. È il direttore spirituale del centro Zenshinkai di Pisa (www.massimoshido.it).
Wind Bell, Publication of Tassajara Zen Mountain Center, v. 15, n.1, 1976. La traduzione è mia.
2 Le due raccolte sono state pubblicate a cura dell’Associazione italiana Zenshinji nel 2005 (Bukkosan roku) e nel 2011 (Zenshin roku).